Appunti sulla Psicologia nel Ritratto

Elisa, finestra d’occhi felini d’un paesaggio d’anima silenzioso e riservato.

Obiettivo del Ritratto.

L’obiettivo è quello di avere delle persone rilassate e se stesse, per fotografare meglio la loro essenza.
Per far ciò è assolutamente necessario stabilire un contatto profondo ed una qualche forma di intimità con chi sta davanti all’obiettivo, entrare in confidenza senza essere invadenti, prestare attenzione ai segnali del corpo ed agli sguardi subliminali, accorgersi dei desideri nascosti, spogliarsi dalle aspettative e portare il soggetto alla sua pura essenza.
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Autoritratto.

Un buona partenza per saper guardare dentro agli altri è saper indagare su se stessi – su “quell’io dentro sè” – e possibilmente riappacificandosi, dopo una profonda autoanalisi. E’ perciò buono il tempo dedicato a sè, tempo che diventerà una chiave di lettura per capire gli altri e per congiungersi con la loro essenza. Solo allora si potrà e si sarà sempre più in grado di plasmare l’espressività dell’anima, perché in fondo mostrare come si guarda agli altri è mostrare se stessi, è vedersi e rispecchiarsi nel soggetto.
Quando l’autoritratto non è uno stupido gioco di vanità, ma un percorso serio di esplorazione, autoindagine e autoconsapevolezza, esso diventa uno strumento di cura per l’anima. Si riescono a creare delle sedute di fotografia terapeutica* in cui si fotografa il proprio malumore per sentire cosa succede o cosa non va bene, per mettere a nudo se stessi e capire. Ma autoscattarsi, analizzarsi e riconoscersi sono anche meccanismi rischiosi perché spesso mettono in discussione tutto il nostro fragile io, a volte anche profondamente.
In secondo luogo, l’autoritratto diventa un’utile ricerca per conoscere gli altri. Che gesti fare per toccare gli altri? Quando? Quali gesti spaventano e quali rassicurano? Toccare a volte crea complicità e trasforma l’espressione delle persone, ma altre volte lo stesso gesto fa paura e scatena il terrore. Ecco che fare autoritratti serve a capire e a sapere cosa chiedere agli altri e come si può interagire insieme.
Per comprendere meglio “quell’io dentro sè” è necessario però anche studiare ed approfondire la materia. Solo per dare alcuni spunti, nella pittura è utile andarsi a studiare i lavori di Vincent Van Gogh, Pablo Picasso, Andy Warhol, mentre nella letteratura bisogna cercare e leggere del materiale sullo “specchio e il doppio”, “l’io nascosto”, nei lavori di Kundera, Kafka, Virginia Wolf e Oscar Wilde.
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Psicologia del Ritratto.

In un modo o nell’altro si è sempre coinvolti davanti ad una persona. La fotografia di ritratto è ricerca e contatto dell’essere altrui, usando gli occhi, la parola e l’attesa del momento in cui la persona si interiorizza, si smaschera e si mostra nella sua vera essenza. Fondamentale sarà porsi la seguente domanda: quali altri io ci sono nelle persone, oltre all’apparenza, che solitamente mostrano?
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“…spesso penso che vengono da me a farsi fotografare come andrebbero da un medico o da un indovino per scoprire come sono, perciò dipendono da me, io devo conquistarli, altrimenti non ho niente da fotografare, la concentrazione deve partire da me e coinvolgerli: a volte la sua forza è tale che non si sentono neanche i rumori, il tempo si ferma. Viviamo un breve, intenso periodo di intimità, ma è immeritato, non ha un passato nè un futuro, e quando la posa è finita – quando la fotografia è fatta – non resta più niente, se non appunto la fotografia” (Richard Avedon tratto da “sulla fotografia”, di Susan Sontag).
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Nello stesso tempo però è necessario fare molta attenzione alle aberrazioni dell’anima. Francesca Woodman e pure Diane Arbus sono grandi fotografe che si sono suicidate, forse proprio a seguito degli sconvolgimenti creati nell’uso troppo coinvolgente della fotografia e nell’interazione fotografica col mondo dei diversi.
“Ho dei parametri e la mia vita a questo punto è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate” (Francesca Woodman)
e ancora:
“La fotografia è la licenza per andare dove voglio e fare quello che desidero. La fotocamera è una sorta di passaporto che annienta i confini morali e le inibizioni sociali, liberando il fotografo da qualsiasi responsabilità verso le persone fotografate. Il punto di fotografare le persone è che tu non interferisci con le loro vite, gli fai solo una visita. Il fotografo è un superturista, un’estensione dell’antropologo, visita i villaggi e riporta notizie su fatti esotici e stranezze locali” (Diane Arbus tratto da “Sulla Fotografia”, di Susan Sontag)
Perciò è estremamente importante per un fotografo capire i propri limiti e comprendere che prima di spingersi dentro l’anima altrui è bene che conosca la sua, in quanto può essere rischioso a livello emotivo penetrare nelle oscurità interiori dei mondi degli altri.
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Fotografare l’Essenza.

Plasmare l’espressività dell’anima è usare la fotografia come strumento di rivelazione delle forme della personalità. Qui il compito del fotografo non è solo di documentare – e neppure di cogliere solo un’altra essenza del soggetto – ma è soprattutto quello di portarla alla luce in modo personale e di rivelarla al soggetto stesso.
Ciò che si instaura nell’atto fotografico è una sorta di magia, di divina religiosità, perché ogni persona è sacra e fotografarla è un atto di profonda comprensione verso la natura umana.
Questa pratica spesso impressiona sia il soggetto, per la capacità del fotografo di andare così oltre alle apparenze, sia il fotografo stesso, che si scopre un po’ “indovino” e che di questo se ne stupisce. L’abilità di cogliere la parte non evidente del carattere del soggetto è infatti un dono, ma anche una ricerca.
Per questo ultimo motivo è già un ottimo inizio incontrare la persona e socializzare prima di fotografarla. Anche se a volte è semplice stabilire un contatto con il soggetto per una qualche sintonia già presente prima della seduta fotografica, spesso invece capita di fotografare persone che non si conoscono ancora. Perciò in tal caso è utile fare piccole domande alla ricerca di punti in comune da condividere (un luogo frequentato da entrambi, un viaggio nello stesso paese, un libro) o qualsiasi altra cosa che permetta di conoscere la personalità di chi sta di fronte alla fotocamera. L’obiettivo è sempre lo stesso: trovare la chiave – capire dove fare breccia – per far sì che la persona si rilassi, si confidi, ma soprattutto si fidi del fotografo. Per farlo però bisogna essere molto ricettivi verso l’esterno, aperti ad ogni piccolo segnale e disposti a creare un contatto vero, dove entrambi – fotografo e soggetto – mettono a nudo la propria essenza, che a volte dura un attimo – un lungo attimo – dentro cui si arriva a dimenticare la propria identità. E’ a questo punto che inizierà la vera seduta fotoanalitica.
E’ un gioco dove ci si denuda senza mai spogliarsi del tutto, ci si abbandona all’inconscio senza capire dove il gioco ci porterà, lasciandoci guidare solo dai sensi. Per quanto possa diventare un momento speciale, esso finisce presto – subito dopo – con il ristabilirsi dei ruoli. Altre volte invece si crea un’intimità che si disperde lentamente, nel tempo. Ma comunque vada a quel punto non ci sarà più bisogno di chiedersi se le fotografie saranno riuscite a trasmettere delle emozioni, perché la risposta sarà scontata: sia il fotografo che il soggetto saranno infatti i primi ad averle provate.
Forse ora è un po’ più chiaro perché è necessario conoscersi a fondo: c’è un confine che non va superato e che non va mai confuso. Innanzitutto per non rischiare di cadere nel troppo emotivo, come nei casi estremi di Diane Arbus e di Francesca Woodman. Diventa importante in questa dinamica il dominio di sè: uno deve sapere quando fermarsi, smettere ed interrompere il gioco, poiché c’è sempre il rischio di entrare in un mondo che non si è più in grado di gestire e che può diventare malefico.

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Peter J. Witkin e Jan Saudek sono altri due autori che hanno lavorato per far uscire il lato oscuro dei soggetti fotografati, ma anche da se stessi, alla ricerca morbosa del lato erotico e macabro della vita ed ai confini dell’impossibile. Ma non solo, essi raccontano con una forte spiritualità storie di gioia e dolore, pervase da un anelito alla bellezza attraverso un’introspezione su se stessi e sugli aspetti di degrado e di perversione della vita. Perciò, attraverso la morte, parlano anche di vita e di verità.
“Macabro, morboso, erotismo sfrenato eppure tanta spiritualità” (Peter J. Witkin e Jan Saudek)

 

Per certi versi i lavori di Witkin e Saudek sono simili al quello che Monica Silva ha fatto traendo spunto dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, su cui Barbara Silbe fa questo commento:
“Monica Silva, attraverso la licenza fotografica si consente di trasformare i morti in vivi, in persone vitali, immortali, pronte a ballare, leggere, strimpellare… i volti dei modelli restano mesti, gli sguardi corrucciati, le pose anche… sono i segnali di un passato non ancora estinto, eppure si percepisce questo sentimento di rinascita in cui tutto è imbevuto… i personaggi di spoon river, essendo morti, non avrebbero più chance di ritornare. Ora invece rinascono giovani e bellissimi, e le ossa sparse per terra non sono lì a rappresentare la sconfitta, non sono trofei collezionati dalla morte, ma piuttosto la rivincita di chi è ancora in questo mondo e ha vinto la morte stessa”. Tratto da “Rievocazioni e invenzioni di una fotografa ispirata”, di Barbara Silbe.
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Fotografia di Strada.

Nel ritratto convenzionale, guardare dritto in macchina significa solennità, onestà ed apertura, ma è negli scatti “rubati” che spesso troviamo le persone “a nudo”.
“C’è qualcosa sui volti della gente quando non sanno di essere osservata, qualcosa che non appare mai quando sono consapevoli invece di essere sotto osservazione. Dagli scatti che Walker Evans ha scattato in metropolitana (ha trascorso centinaia di ore su e giù nella metropolitana di New York, in piedi, con la lente della sua macchina fotografica nascosta tra due bottoni della giacca), è evidente dalle stesse immagini che i passeggeri seduti, sebbene in piano ravvicinato e fotografati frontalmente, non sapevano che venivano ripresi. Le loro espressioni sono intime, private, inespressive, ritratti che mai avrebbero offerto intenzionalmente alla fotocamera”. Susan Sontag
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Fotografare sconosciuti che per un motivo o per un altro passano accanto, richiede però alcuni accorgimenti. Occorre studiare bene prima l’ambiente, cosa indossano le persone e cosa fanno di mestiere. Perciò fondamentale è l’osservazione, ma pure la discrezione per non risultare invadenti. E poi è necessario fermarsi ad aspettare il momento giusto, perché la pazienza spesso è la sola qualità che distingue una foto speciale da una banale.
Anche quando si incontrano persone apparentemente ostili, è comunque corretto provare a sorridere e ad avvicinarsi con discrezione. Se il fotografo è sincero ed aperto verso gli altri, sarà più probabile che i soggetti gli dedichino un po’ del loro tempo.

La composizione in un ritratto di strada. Raccontare le persone e la loro psicologia vuol dire anche saper raccontare il luoghi in cui si muovono e dove vivono, saper individuare gli angoli, le strade, le quinte, i muri che possono raccontare bene la quotidianità del luogo e aggiungere informazioni sulle persone. Perciò – nella composizione in un ritratto di strada – lo sfondo diventa un componente fondamentale della fotografia.
Una volta individuati gli scorci, occorre che il fotografo aspetti che prendano vita, che passi qualcuno. Lui stesso dovrà chiedere a qualche soggetto di entrare nell’inquadratura – se di lì non passa proprio nessuno – perché magari vorrà ricostruire una sua personale visione. Ricordo che – a tal proposito – è fondamentale avere fantasia e saper immaginare nel vuoto, perché permette di diventare più coraggiosi: il fotografo conquista il mondo quando ha un’immagine in testa: la sua visione emoziona a tal punto che le persone si lasceranno coinvolgere e lo seguiranno nelle sue richieste.
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Altri Consigli.

Alcuni consigli sulla direzione fotografica. Il controllo della situazione deve essere mantenuto dal fotografo. Non va mai bene lasciare al soggetto la scelta degli scatti da fare. Può essere che l’immagine che il soggetto voglia dare di sè semplicemente non sia quella giusta. Oppure invece può essere che il fotografo veda dell’altro e voglia realizzare delle fotografie diverse, magari su altri aspetti meno evidenti della personalità del soggetto. In caso di resistenze, i primi scatti possono anche accontentare il soggetto, ma poi sarà sempre opportuno che il fotografo – con il massimo rispetto – conduca il soggetto agli scatti che vuole fare.
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Psicologia della donna. Dicono che sia più difficile fotografare la donna perché è più critica sulla sua immagine. Ciò è parzialmente vero, ma ovviamente dipende dal tipo di scatti che si vogliono fare. Per rimanere nel tema affrontato – e se il fotografo è uomo – sarà indispensabile dimenticarsi di essere maschi, perché spesso gli uomini fotografano la donna in un modo molto specifico, spesso animalesco ed indelicato, trasformandole anche in modo inconscio in un oggetto di desiderio sessuale. Il primo passo è sicuramente quello di considerare la donna come un soggetto, per cui sarà necessario spogliarsi dal tipico ruolo di “guardone”. Il passo successivo sarà poi quello di inserire sempre un pizzico di fantasia e di poesia, perché a volte una donna è molto più sensuale quando non mostra niente. Il terzo passo decisivo – altrettanto importante – sarà infine quello di mettersi alla pari e dimenticarsi di essere fotografi, senza cioè quell’armatura fotografica dietro cui spesso il fotografo si nasconde e si protegge. Solamente allora – senza più chiusure o paure da parte di entrambi – la personalità potrà venire fuori nella sua essenza e nelle sue molteplici sfaccettature.
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(Appunti tratti da un webinar sulla “Psicologia nel Ritratto” di Monica Silva e molto liberamente modificati e personalizzati).
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Approfondimenti:

* Fotografia Terapeutica:
Con il termine Fotografia Terapeutica, si intendono tutti quegli interventi, più spesso messi in atto da persone che non sono terapeuti, miranti ad utilizzare la fotografia a scopi esplorativi, di autoindagine o di autoconsapevolezza. Essa  viene impiegata anche come uno strumento ‘facilitatore’ all’interno di contesti non clinici (ad esempio: scuole, corsi di formazione, centri sociali…), allo scopo di aiutare le persone a diventare maggiormente consapevoli di alcuni aspetti della propria personalità e dei propri modi di essere.
La Fotografia Terapeutica si distingue della Fototerapia, che invece intende tutti quegli interventi terapeutici nel corso dei quali psicoterapeuti oppure arteterapeuti, utilizzano la fotografia per aiutare i loro pazienti a risolvere un loro problema. In questo caso essa viene utilizzata come strumento terapeutico vero e proprio all’interno di un setting clinico (ad esempio: nei centri riabilitativi psichiatrici, nella terapia di disturbi psicologici).
Risultano pertanto evidenti le principali differenze tra questi due ambiti di utilizzo della fotografia.
(Questi ultimi approfondimenti sono tratti dall’articolo “Fotografia come terapia” di Fabio Piccini, dal sito: www.aroundphotography.it )

2 commenti:

  1. Molto interessante questo articolo. Da fotografa giovane ritengo di dover sempre approfondire l’arte del ritratto. C’è qualcosa di meraviglioso che lega fotografo e fotografato. Secondo me ci sono due punti di vista del ritratto. Il ritratto di strada appunto quello in cui il soggetto fotografato non si accorge che lo fotografi e quindi riesci a “estrarre” espressioni che non vedresti mai … e quello in cui il soggetto fotografato ha consapevolezza che gli si sta facendo un ritratto. Per rendere questo ritratto naturale ci vuole tempo e bisogna abbassare l’apparenza dell’emotività legata rapporto tra fotografo e fotografato. Il ritratto è una tecnica difficilissima. Ci vuole tanta esperienza, ci vuole tempo, ci vuole anche fortuna di essere nel luogo giusto al momento giusto. Oppure di instaurare quel rapporto onesto e sincero senza barriere…

  2. Francesco Nanetti

    Buongiorno,
    sono un fotografo di Bologna, amante del ritratto… ed ho fotografato molte donne.
    Ultimamente sto spingendo molto nella ricerca dell’essenza, della spontaneità e della naturalezza, pertanto condivido integralmente quanto da te scritto, in particolare il paragrafo “Fotografare l’essenza”.
    Avrei piacere di condividerlo su Facebook, previo consenso, ovviamente citando l’autore.
    Francesco Nanetti – Bologna
    Presente su Facebook, con la foto di copertina che ritrae un giardino autunnale.
    Grazie

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